Ricchezza e vivacità del patrimonio musicale bresciano di ieri e di oggi sono testimoniati una volta di più da questo secondo volume del progetto “Brescia suona Brescia”.
L’itinerario del disco riparte dal Rinascimento e in particolare dal responsorio a quattro voci Caligaverunt oculi mei di Giovanni Contino, a lungo maestro di cappella della Cattedrale di Brescia e detentore di altri prestigiosi incarichi musicali, e dalla “canzone alla napolitana” Mamma mia cara di Teodoro Riccio, maestro di cappella nella chiesa di S. Nazaro e poi in importanti corti della Germania. Testimonianze tratte da repertori diversi, che pure dimostrano come la scena musicale bresciana del Cinquecento non si possa ridurre alla pur straordinaria figura di Luca Marenzio, peraltro allievo proprio di Contino, di cui qui si ascolta Chi dal delfino aita, madrigale a sei voci scritto per una speciale circostanza. Faceva parte, infatti, degli intermedi da “La Pellegrina”, inserti musicali tra gli atti della commedia rappresentata nel 1589 in occasione delle nozze di Ferdinando de’ Medici e Cristina di Lorena.
Un salto di tre secoli conduce a Marco Enrico Bossi, organista virtuoso e compositore nativo di Salò, tra i pochi autori italiani tra Ottocento e Novecento a coltivare la musica strumentale in un Paese asservito al melodramma. Nella sua Leggenda op. 132 n. 1 del 1910, brano d’apertura di una raccolta di cinque pezzi “in stile libero”, si coglie la bellezza crepuscolare del linguaggio di Bossi, che trova dapprima nell’organo sonorità di insolita morbidezza, per poi scatenarne appieno le risorse foniche in passaggi densi di pathos, in cui affiorano echi del tardoromanticismo brahmsiano.
Unica opera lirica del bresciano Isidoro Capitanio, Pasqua fiorentina venne completata nel 1934, ma eseguita per la prima volta soltanto nel 1998. La Banda cittadina, che oggi porta il suo nome, esegue qui il brano “La Pasqua” nella strumentazione di Giovanni Ligasacchi, rendendo onore ad una pagina solenne e festosa, che si sviluppa come un grandioso crescendo su una melodia ampia e vigorosa, quasi un canto di lode. L’elegante e personale neoclassicismo di Franco Margola, nativo di Orzinuovi, emerge sia nel Concerto breve per chitarra e archi dC 204 del 1975, lavoro brillante e compatto con movimenti estremi scorrevoli e incalzanti e un assorto Adagio centrale, sia nella Sonata per mandolino e chitarra dC 314 del 1982. «Mi sono riconciliato col mandolino (che detestavo) quando ho scoperto che anche il collega Beethoven ha scritto per tale strumento pur evitando di trattarlo alla napoletana così come ha fatto il sottoscritto…» scrive Margola di questo pezzo, con la stessa ironia che lo induce a definire la sonata “grande”, sebbene duri circa cinque minuti. Ciononostante, è in effetti una pagina felice e ispirata, con un piglio ritmico vivace e ammaliante che attraversa l’intero sviluppo del discorso musicale.
La traccia inedita pubblicata in questo disco ci mostra Camillo Togni interprete al pianoforte di un suo lavoro, il primo dei Capricci op. 38, scritti tra il 1954 e il 1957. Tra i primi compositori in Italia ad utilizzare la tecnica dodecafonica, come egli stesso spiega in questi brani utilizza la medesima serie di dodici suoni, impiegandola per determinare non solo la struttura sonora ma anche l’articolazione ritmica, collegando la durata dei suoni agli intervalli tra le note che compongono la serie. Il termine “capriccio” non va quindi inteso, in questo caso, come libera costruzione della fantasia, ma riportato al suo significato settecentesco, avvicinandolo al concetto di “studio”.
Di Giancarlo Facchinetti, formatosi alla scuola di Margola e Togni, nonché di Bruno Bettinelli, il disco presenta diversi brani. Scritto per Eliot Fisk nel 1989, l’Arabesque III FZ 148 per chitarra è una pagina virtuosistica, in cui le sei corde diventano terreno di libera esplorazione, con una moltiplicazione formidabile – e non poco impegnativa per il solista – di voci ed effetti, a determinare polifonie immaginarie con pochi punti di riferimento. Corde stoppate, sequenze in rasgueado, tremoli, sono però solo strumenti del discorso sonoro, che scorre come un flusso di coscienza; la libera forma dell’arabesque, priva di centro, fa affondare e riaffiorare motivi e strutture seriali, secondo procedimenti che dimostrano la finezza del linguaggio del compositore.
Per pianoforte sono invece il primo dei Dieci studi FZ 224 del 2004, brani che attraverso l’esplorazione di difficoltà tecniche pervengono a intensi esiti espressivi, due dei nostalgici, lievi eppure penetranti Sette valzer FZ 245 del 2007 e la tarantella dalla Suite di danze per i cani Isotta e Pluff FZ 249, pagina brillantissima e ricca del caratteristico humor del compositore bresciano.
Scritto nel 2012 in occasione di un festival dedicato a Debussy promosso dal Conservatorio di Brescia, Aegipan per flauto solo di Giorgio Benati ha i caratteri dell’omaggio non solo per l’impiego della scala esatonale cara al compositore francese, ma anche per il desiderio di ricreare colori e atmosfere incantatorie del celebre Syrinx. Aegipan è una figura mitologica affine a Pan, a tal punto da essere da alcuni identificato con esso; allo stesso modo, il brano di Benati ha una sua identità e al tempo stesso si sovrappone al modello, rinnovandone l’ipnotico fascino. Ispirato alla poesia dialettale “El vent” della salodiana Teresa Baccolo, il duetto El Suèr di Eugenio Catina, scritto nel 2013, evoca il forte vento di tramontana tipico del Lago di Garda, così chiamato perché viene da “sopra”; è detto anche “Pelèr”, vento che “pela” e sbianca l’onda. Il brano si sviluppa nella contrapposizione tra un “tutti”, atmosfera inquieta con folate forti e improvvise e un “solo”, momenti di relativa quiete, in cui c’è l’utilizzo di frammenti melodici in tremolo, a rappresentare la duplice natura di un vento che al tempo stesso taglia e accarezza.
Eseguito in prima assoluta a Bologna nel 1996, Impromptu per organo di Alberto Donini tiene fede al suo nome sviluppando liberamente le idee musicali in uno spazio sonoro dilatato, un campo atonale in cui riaffiorano residui tematici tradizionali, resi elettrici dall’intersezione con dense fasce sonore.
Concepito e realizzato nel 2020, nell’ambito di un progetto della S.I.M.C. (Società Italiana di Musica Contemporanea) che invitava i compositori a rielaborare musicalmente l’esperienza del lockdown e dell’emergenza pandemica, Hope at home di Rossano Pinelli è un brano per pianoforte costruito su una serie di accordi che si muovono in sequenza sempre più serrata dal registro grave all’acuto, in un ben calibrato processo di allentamento del peso sonoro che rende metaforicamente il passaggio dalla paura ad un’accennata speranza.
Tratto dall’ambiziosa opera-oratorio “Filippo, uomo di luce”, dedicata alla figura di San Filippo Neri e completata da Luca Tessadrelli nel 2007, il coro Ah, gli stolti mortali riassume efficacemente il registro espressivo dell’intero lavoro, un affresco dai modi neo-barocchi intriso di spiritualità e bellezza, con una melodia solenne intonata in un clima di raffinata compostezza.
Suggestioni barocche vibrano anche nell’ultimo brano del disco, Aria di Marco Nodari, tratto da Appunti di viaggio (n°3) per pianoforte del 2013. Si tratta di una passacaglia, costruita come da tradizione su un basso ostinato che qui è però soprattutto il trampolino per dispiegare una felice invenzione melodica, liberando una cantabilità insieme dolce e struggente.
Andrea Faini