MUSICA BRESCIANA O MUSICHE BRESCIANE?
Si può parlare di una “brescianità” musicale? In tempi difficili è alto il rischio di arroccarsi sotto vessilli identitari o rifugiarsi in operazioni di campanile, magari per offrire un quarto d’ora di celebrità a qualche gloria locale. Non è quindi il caso di avventurarsi nell’improbabile ricerca di tratti distintivi della musica bresciana – cercando artificiosamente di costruire un recinto che la separi da altre, non meno indefinibili tradizioni – ma al contrario occorre evidenziare la varietà di stimoli che un’osservazione anche superficiale del patrimonio musicale bresciano può offrire.
Il violino di Gasparo da Salò, gli organi della famiglia Antegnati, la scuola mandolinistica bresciana e i grandi personaggi – da Luca Marenzio, maestro del madrigale rinascimentale, ad Arturo Benedetti Michelangeli, leggenda del pianoforte – non sono tessere di mosaico destinate a comporre un unico disegno. Parlare di musica bresciana non ha senso, semmai è d’obbligo il plurale: la diversità è una forza, testimonianza di un territorio fecondo, vivace, profondamente intrecciato alla storia musicale italiana ed europea.
Ripercorrendo alcune delle tappe essenziali di questo cammino, nell’arco di oltre cinque secoli, questo disco intende essere un contributo rivolto in primo luogo alla stessa comunità bresciana – non sempre consapevole della formidabile ricchezza del suo passato e presente musicale – ma è anche una vetrina per qualunque appassionato voglia scoprire quanto la musa Euterpe sia stata e sia generosa con il nostro territorio.
L’itinerario non può partire da altri che Luca Marenzio, nativo di Coccaglio, che dominò la scena musicale europea nella seconda metà del Cinquecento; lo stile arioso, insieme raffinato e sensuale dei suoi madrigali divenne di gran moda e la sua musica era contesa tra i più importanti editori del continente. Chi vuol udir i miei sospiri in rime, che qui ascoltiamo in prima assoluta nella trascrizione di Alberto Pedretti per quartetto di tromboni su strumenti antichi, fa parte del Primo Libro dei madrigali a quattro voci, pubblicato nel 1585. Su testo di Jacopo Sannazzaro, ne coglie e amplifica il lirismo pastorale, con una prima parte in cui le voci si muovono con cautela, restando quasi sospese, e una seconda più distesa e armonica, in cui ancora non si intravedono tracce degli arditi cromatismi del Marenzio più maturo.
Per ben sette generazioni e duecento anni – da Bartolomeo, citato per la prima volta nel 1481, fino a Bartolomeo Ludovico, morto nel 1691 – gli organari bresciani della famiglia Antegnati realizzarono strumenti di eccezionale valore in tutto il nord Italia e persino in Svizzera, celebri per perfezione tecnica e qualità musicali. Costanzo Antegnati, figlio di Graziadio – “il più esatto e perfetto in quest’arte” – pubblicò il trattato “L’arte organica” – sunto delle conoscenze tecniche e della storia della famiglia – e fu attivo come compositore, pubblicando nel 1608 a Venezia “L’Antegnata”, un’intavolatura di dodici ricercari in tutti i toni. Di questa raccolta fanno parte i brani presenti in questo disco, eseguiti sull’organo Antegnati della chiesa di S. Carlo a Brescia, caratterizzati da un denso contrappunto mutuato dal madrigale cinquecentesco.
Bartolomeo Bortolazzi fu un virtuoso di eccezionale talento, che seppe trasformare il mandolino in una moda europea tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento (anche Beethoven ne fu stregato, scrivendo diversi pezzi per questo strumento). In tre movimenti, la Sonata per pianoforte con accompagnamento di mandolino in re maggiore op. 9 dimostra tuttavia che Bortolazzi non fu soltanto un maestro del suo strumento – che pure risulta esaltato dalla scrittura agile e brillante – ma anche un solido compositore, capace di dominare equilibri e geometrie del vocabolario classico.
Nato nella patria del melodramma e nel secolo – Il XIX – del suo apogeo, un autore di musica sinfonica e da camera come Antonio Bazzini era inevitabilmente destinato all’oblio, se non per qualche aspetto della sua biografia – fu direttore del Conservatorio di Milano e insegnante di Giacomo Puccini – o per brani di fatuo virtuosismo scritti per il suo strumento, il violino, come la celebre Ridda dei folletti. Da qualche anno è stato riscoperto come voce autorevole del panorama musicale europeo di quegli anni, importante come compositore, stimato da Schumann e Mendelssohn. Nelle sue trascrizioni e fantasie per violino e pianoforte, come quella proposta qui, trovò una sintesi tra la sua sapiente scrittura cameristica, il virtuosismo e il belcanto italiano.
Il Notturno di Franco Margola, compositore che ha dedicato alla chitarra una significativa parte della sua produzione, venne completato nel 1971 e originariamente intitolato Improvvisazione. Cambiò titolo su richiesta dell’editore Zanibon e fu pubblicata in una versione lievemente ridotta rispetto a quella originale qui eseguita. Il brano sembra rispecchiare entrambi i suoi titoli: dall’improvvisazione attinge il carattere rapsodico e la libera giustapposizione di gesti esecutivi, dal notturno tinte scure e suggestioni oniriche.
La composizione del V Capriccio era stata richiesta a Camillo Togni da Giuseppina La Face Bianconi, segretaria della Società Internazionale di Musicologia dell’Università di Bologna, in occasione del XIV Congresso del 1987. L’intento della proposta (rivolta anche a Battistelli, Bussotti e Sciarrino) era quello di allargare la celebre raccolta pianistica ottocentesca dell’“Hexameron”, offerta a Cristina Belgioioso dai più famosi pianisti di Parigi e scaturita dalla collaborazione di Liszt, Thalberg, Pixis, Herz, Czerny, Chopin. Per questa ragione il Capriccio si sviluppa a partire dallo stesso tema belliniano dell’“Hexameron” (il duetto de I Puritani “Suoni la tromba e intrepido”) ed utilizza come micro-serie i tre suoni iniziali ed il loro ritmo originale, costruendo una trama sonora densa, che alterna sequenze meditative e aspri squarci.
Giovanni Ligasacchi è stato una figura di riferimento per il mondo bandistico, non solo bresciano, sia per l’impulso all’ampliamento del repertorio che per l’impegno didattico che ha consentito a tanti giovani e giovanissimi di avvicinarsi alla pratica musicale. Meno nota è la sua attività di compositore, di cui restano pochissime tracce. La più significativa e luminosa è la Ballata epica qui presentata, una pagina animata da un’inesauribile energia, in cui fanno capolino diversi riferimenti al repertorio operistico, ma spicca soprattutto la qualità della scrittura, che esalta l’intera tavolozza dell’organico bandistico. Giancarlo Facchinetti scrisse il Concertino per chitarra e archi FZ 253 nel 2008 per Giulio Tampalini. Come in molti lavori completati da Facchinetti dopo il 2000, la dodecafonia cede il passo ad un impianto neoclassico, venato da un umorismo agrodolce. Pur aderendo superficialmente ai luoghi comuni della forma – l’Allegro iniziale nobile, l’Andante moderato centrale lirico ed espressivo, l’Allegro vivace conclusivo brillante – il Concertino è un concentrato di piccole, squisite invenzioni sonore, di virtuosismo scintillante, di asimmetrie politonali, di scivolamenti ritmici, come una messa in scena teatrale che non cessa di cogliere in contropiede le aspettative dell’ascoltatore. Il gioco intellettuale nulla toglie però alla spontaneità della musica e ad una vena melodica felicissima, in particolare nel magnifico movimento centrale, poesia sospesa in un clima di nostalgica bellezza.
Felice vena melodica e una scrittura semplice e incisiva caratterizzano i brani eseguiti dal coro di voci bianche “Carminis Cantores” di Puegnago del Garda, l’Ave Maria dello stesso Giancarlo Facchinetti e Il cielo di Ennio Bertolotti.
Ispirato da un viaggio verso oriente del vibrafonista Olmo Chittò e ad alcuni suoi temi di sapore balcanico, A te convien tenere altro viaggio di italiana, evoca la malinconia di chi ama in solitudine.
Musica contemporanea non è però solo ricerca e sperimentazione. Ne è la prova il Preludio di Claudio Mandonico – scritto nel 1974 e arrangiato per orchestra a plettro nel 1978 – con una scrittura carica di suggestioni barocche che trasforma l’orchestra a plettro in un meccanismo di precisione, una perfetta combinazione di ingranaggi sonori che conserva la lezione del passato senza perdere la freschezza della libera invenzione.
Tommaso Ziliani si affida ad un titolo dantesco e alle parole di Virgilio che invitano il poeta a ritrovare il cammino per uscire dalla selva oscura in cui si è smarrito – per sottolineare l’urgenza del partire per ritrovare sé stessi (e qui, scherzosamente, invitare il musicista a ritornare a dedicarsi al suo mestiere). Il brano alterna atmosfere sospese e sequenze più mosse, con una sezione improvvisativa centrale, procedendo per frasi essenziali e ripetuti contrasti.
A una zanzara è il titolo di una curiosa poesia di Giovan Francesco Maia Materdona e di un brano del 2018 di Silvia Bianchera Bettinelli. I versi, che accostano con ironia i tormenti inflitti dall’insetto e i patimenti d’amore, animano una composizione per soprano, flauto, clarinetto, violoncello, pianoforte in cui gli effetti sonori – ronzii, svolazzi, fruscii – trovano posto nella cornice di un discorso musicale libero da schemi, scosso da continui cambi di registro espressivo che rendono la pagina brillante e imprevedibile.
Scritto nel 1991, Die Stimme der Stille (Passacaglia verso il vuoto) è un brano di Antonio Giacometti dedicato ancora una volta alla chitarra di Giulio Tampalini. Pagina ruvida e squarciata da bruschi contrasti, muove da “Round Midnight” di Thelonius Monk, tema che si svela gradualmente sorgendo dall’ostinato del basso di Passacaglia e si spegne in frammenti sospesi, affacciati sugli abissi inesplorati del silenzio.
Asamashi, dedicato nel 1999 al duo Frati-Dadomo da Mauro Montalbetti, mette sotto il microscopio chitarra e mandolino, esplorandone i colori nascosti tra frammenti di motivi e densi silenzi, in un inquieto gioco di luci e ombre. Ispirato da un antico haiku, sviluppa motivi di un folklore immaginario – senza citazione di motivi originali – nato dalle tecniche di giustapposizione melodica della musica del teatro NO, alternando materiali pentatonici a tecniche di imitazione dei suoi della natura. Il titolo, fortemente evocativo e praticamente intraducibile in lingua
L’Ave Maria di Fabio Armiliato, scritta nel 2015 per la voce della compagna di palcoscenico e di vita Daniela Dessì, è una pagina che si nutre di belcanto, in bilico tra aria e canzone, inseguendo una melodia che si dipana in crescendo, senza conoscere ostacoli, per approdare ad atmosfere più decisamente liriche.
Chiude il disco lo Studio n. 3 “Preghiera per Giulia” per chitarra di Isaia Mori, ricordo musicale di una persona cara, scritto nel 2012, in cui la dolcezza prevale sulla malinconia, facendo quasi cantare le sei corde sulle note di un motivo sognante cui manca solo la parola.
Andrea Faini